LA VAL DI NOTO
di Carlo Ottaviano
FONTE: www.ilnuovo.it
“Ci vuole una certa qualità d’anima,
il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le
giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero
che spia; ma anche si pretende la passione per le macchinazioni
architettoniche, dove la foga delle forme in volo nasconde fino
all’ultimo il colpo di scena della prospettiva bugiarda.”
Per Gesualdo Bufalino, Premio Campiello e
scrittore italiano più letto all’inizio degli anni
80, sono necessarie queste caratteristiche per visitare - e
godere - Ragusa Ibla. Se ne siete dotati ... proseguiamo pure
questo itinerario, che tocca alcuni degli otto comuni entrati,
per decisione dell'Unesco, il 26 gennaio a far parte del patrimonio
mondiale dell'umanità.
Sono tutti arroccati sulle colline a cavallo
tra le province di Siracusa, Ragusa e Catania: Noto e Palazzolo
Acreide, Caltagirone e Militello Val di Catania, Ragusa, Modica
e Scicli. E' un viaggio nella Sicilia meno nota e nell’animo
dei siciliani che qui, e non altrove, sono rimasti integri grazie
al forzato isolamento causato dalla lontananza: Ragusa –
per chi non lo sapesse – è il capoluogo di provincia
più a Sud d’Italia, più a Sud perfino di
Tunisi, ché l’Africa in quel punto sale e la Sicilia
segna il suo vertice estremo.
E in questa zona, isola nell’isola,
la popolazione ha mantenuto i tratti originari del carattere
dei siciliani senza assumere i vizi e le nefandezze che li hanno
resi tristemente famosi nel mondo. Orgogliosi ma non superbi,
sognatori e concreti, audaci ma non velleitari, determinati
non testardi, umili mai modesti. Nel loro piccolo coraggiosi.
E il barocco è la cifra di questa terra e di questa gente
anche al di là della limitata questione stilistico-architettonica.
Andare per credere.
Arrivando in auto da Catania –un’ora circa dall’aeroporto
di Fontanarossa- appena superata la Vizzini di “Cavalleria
rusticana” di Alfio e compare Turiddu, cui dopo il lavoro
restava anche il tempo per duellare, si entra nel territorio
della provincia iblea. Dove il bracciante sfiancato alla fine
di una massacrante giornata di lavoro aveva invece solo gli
occhi per piangere. Terra ingrata: talora piena di rocce, talaltra
franosa. Ma grazie a quel faticoso lavoro oggi quei muretti
a secco sbalordiscono: è un reticolo di centinaia di
chilometri di pietra su pietra incastrate rigorosamente una
all’altra per contenere il terreno, liberarlo dalla crosta,
delimitare pascoli e proprietà. Opera dell’ingegno
e dell’impegno oggi analizzata da studiosi americani e
tedeschi affascinati da questa pietra vissuta e dal bizzarro
susseguirsi geometrico dei muri a secco. Archeologia agricola,
la chiamano.
I muretti a secco sono la prima prova della “baroccaggine”
insita nei siciliani, della loro voglia di fare e di apparire:
il contadino toglie le pietre dal terreno e al contempo delimita
ed evidenzia la sua proprietà. Panza e sostanza, concretezza
e apparenza, come avviene anche nella cucina, pochi chilometri
più avanti sulla stessa strada, a Chiaramonte Gulfi,
altra tappa d’obbligo dell’itinerario. C’è
un’antica trattoria dove si mangia solo maiale, anzi,
come recita una scritta all’ingresso, dove “si magnifica
il porco”. E non si butta nulla della più povera
delle carni, perfino il piede ed il muso vengono utilizzati
per la creazione della prelibata gelatina. Nel paese resta ben
poco dell’originario centro arabo, ma – visto che
ci siamo - ammiriamo appena fuori, l’ambiente montano.
Una bella pineta, vera oasi nell’assolata e chiassosa
Sicilia.
Ancora mezz’ora di auto ed ecco prima Ragusa e poi i
fasti di Ragusa Ibla. Quest’ultima lascia sgomenti: chiese,
sconosciute ma belle come poche, piazze spaziose con palazzi
nobiliari dalle artificiose costruzioni, facciate decorate da
mascheroni e inferriate di bellezza sbalorditiva e poi stradine
dal sapore medievale. Piccole, tortuose con gli odori dei piatti
preparati nelle abitazioni. Ecco, siamo nel mistero del barocco
e nell’animo di questa gente. Ibla, Modica, Scicli, tutti
gli altri centri del Val di Noto rinascono più belli
di prima dopo il terremoto del 1693. La terra- era il 9 di quel
freddo gennaio- si apre inghiottendo i palazzi dei ricchi e
le case della povera gente e portando con se 57.537 vittime.
Passa poco, appena qualche mese, e senza piangersi addosso ci
si rimette al lavoro – altro che Belice! – per riedificare
quelle città testardamente sugli stessi luoghi ma più
belle di prima. Arrivano anche gli architetti più noti,
ma saranno i “mastri” locali a firmare le realizzazioni
più ardite. Lo faranno – ecco la particolarità
– senza farsi trascinare nella decorazione inutile fine
a se stessa, amando il bello ma senza buttartelo in faccia.
Quasi con discrezione, salvo poi stupire per la coerenza complessiva
del disegno, per la scelta della pietra dorata dei Monti Iblei
e per la funzionalità delle opere.
Un suggerimento – sempre alla ricerca dell’anima
- a questo punto è quello di prendere per qualche chilometro
la vecchia tortuosa strada per Modica, e cercare di vedere da
lì la bellissima cattedrale di San Giorgio. Non la noterete
perché la prospettiva è laterale e il barocco,
che prima d’ogni cosa è apparenza, anche in questo
caso ha solo cercato di stupire con la facciata non preoccupandosi
del resto. Rieccoli i siciliani, qui sì arroganti, nel
voler mostrare sempre e solo l’apparenza, l’abbondanza.
O, se volete all’opposto, arroganti nel voler nascondere
agli altri – che non meritano! - le proprie virtù
e quindi arroganti proprio in quell’essere apparentemente
discreti e riservati. Ma forse anche questo è il misterioso
fascino del barocco ibleo che imprevisto e inatteso vi riapparirà
poco dopo con le sue stupefacenti costruzioni di Modica e con
le linee - rubiamo e parafrasiamo da Vitaliano Brancati - di
“un incessante cataclisma armonico, di un’immensa
anarchia equilibrata.”
Perché quelle linee così arzigogolate e improvvise
tutto sono fuorché fuori luogo e inutili: sono fuori
le regole ma dentro le regole del saper vivere. Come a Scicli
– e termina il nostro itinerario - dove Elio Vittorini
mette in bocca al giovane pastore di “Le città
del mondo” il vero senso del bello: “è forse
questa la più bella di tutte le città e la gente
è contenta nella città che sono belle. ... a giudicare
da com’era bella, bisognava che la gente vi fosse straordinaria.”
(27 GENNAIO 2003)
AUTORE: Carlo Ottaviano
FONTE: www.ilnuovo.it